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venerdì 4 luglio 2014

La strada che porta alla vita

Ero. Sapevo dove ma non chi.
Era uno di quei giorni in cui mi trovavo a muovermi avanti e indietro, a destra e a sinistra, secondo schemi a me sconosciuti e del tutto irrilevanti. Nessun desiderio in fondo alle direzioni prese nell'arco della giornata.
Solo sopravvivenza. 
Anzi nemmeno, anzi il contrario.
L'inerzia, l'inerzia che conduce alla morte.

Poi quelle parole, arrivate a sorpresa.
"Eri dall'altra parte del mondo, da solo, e dormivi dove capitava. Che paura può farti la vita di adesso?".

Vero.
Qualche tempo fa ho quasi rischiato la vita. 
L'ho fatto poco di più del mio solito nulla,  ma la cosa mi ha fatto sentire più vivo che mai. 
E allora ecco il pensiero, ecco l'eureka improvviso nel bagno sudato di quest'afoso pomeriggio di luglio.

L'inerte routine, apparente certezza di vita, è un cammino che porta ben lontano dall'esistenza. È una strada piatta e infinita che consuma nell'ordine il corpo, il sonno, la fame e i pensieri, finché del viandante non resta che un'ombra, destinata a svanire dopo il tramonto.

È la strada di roccia, di sabbia, in salita, in discesa, quella che porta alla vita. Quella attraversata da fiumi, contornata da fiori, foreste, uccelli ispirati e bestie feroci, che porta a sudare, cadere, a correre, a ritemprarsi nel sonno. 

Così mi sono fermato, mi sono seduto, e ho guardato con calma intorno a me per tutta la notte, fino a cadere nel sonno.
Al mattino mi sentivo addosso la voglia e le forze, così ho chiuso gli occhi, mi sono girato e ho cambiato strada. 

mercoledì 18 dicembre 2013

Poesydney

Questo momento voglio fermarlo, metterlo nero su bianco.
È mercoledì sera, sono a Sydney e sto tornando a casa in bicicletta. Manca l'ultimo paio dei 25 chilometri che mi sono concesso per questo mio primo spostamento su due ruote.

È buio, intorno il niente. Tengo gli occhi sull'asfalto, che avanza troppo lentamente sotto le mie ruote. Il navigatore dice che se faccio la strada che dice lui, tra 10 minuti dovrei sarò a casa. Io sono stanco, sento le gambe dure, pedalo a fatica non appena la strada si fa un poco più ripida della pianura, senza contare il culo indolensito. Guardo il navigatore, penso che tra poco sarà tutto finito, ma di colpo, invece, mi sorprendo a pensare che questo è solo l'inizio. Alzo gli occhi, mi guardo intorno, e vedo una luna enorme e bianchissima che mi sorride.

Perché sono qui? Sono qui per turismo, sono qui per fare un'esperienza di vita, sono qui per imparare l'inglese, sono qui per scrivere, sono qui perché magari mi scopo una bionda australiana, sono qui per vedere se quando tiri lo sciacquone l'acqua gira veramente al contrario.

Certe volte uno parte senza sapere il motivo, oppure lo sa ma non conta, perché a un certo punto, in un certo momento di un certo giorno, il motivo - quello vero - lo scopre. E io continuo così, con questa vita che avanza saltellando in avanti e all'indietro come una pallina sulle caselle di una roulette. Poi di colpo si ferma, e allora vinci o perdi qualcosa, e poi riparte.

Non so se questo è il motivo per cui sono qui. Se è questa sensazione stupenda, libera, di andare dall'alta parte del mondo e riscoprire sé stessi. Incontrare quel ragazzino che da piccolo al paese saltava, correva e passava i pomeriggi sul sellino. Incontrarlo qui, a decine di anni di distanza, dall'altra parte del mondo, come se in fondo, nonostante quello che è successo, nonostante tutto sia in gran parte cambiato, quel ragazzino c'è ancora: bello, simpatico e generoso come lo ricordavi, che ride ancora allo stesso modo, per ridere e basta, che fissa ancora la luna con lo stesso stupore. Lui che ti guarda e non capisce perché stai piangendo, lui che ti chiede chi sei, e come mai gli assomigli così tanto. E tu, mentre non riesci nemmeno a pensare di smettere, gli cadi in ginocchio davanti, lo stringi forte e gli dici "ti voglio bene".

Ti voglio bene.

giovedì 25 aprile 2013

Troppa maionese

Dicono che se sto male è perché mangio troppa maionese,
o perché ho mangiato pan di stelle prima di pranzo.
Dicono che se da venti giorni ho un andirivieni di nausea,
con la netta sensazione che il pomo d'adamo sia più grande della gola,
dev'essere perché mangio schifezze ad ogni ora,
perché mangio cibi fritti, perché bevo Coca-Cola.

Si sbagliano.

Ma come faccio io a dirgli che sto male e che ho paura.
Come faccio a dire loro che ho deciso di cambiare,
di lasciare questo posto e questa vita
senza garanzie di ritrovarla se tornassi?
Come faccio a dire a loro, che sono più grandi,
che ho messo tutto in discussione,
che forse ho in me qualcosa che mi muove e mi spaventa,
perché non so mai dove mi porta.

Così sveglia e vigile che mi toglie il sonno e non mi fa distrarre,
così forte che il mio corpo mi si rivolta contro,
così grande che a raccontarla mi si incastra nella gola,
così libera che non vorrei sentirla neanche io.

E anche se non credo, tifo perché abbiano ragione.
Vorrei anch'io che fosso solo troppa maionese.

martedì 3 aprile 2012

Spiazzato

Avere una vita spezzata su due blog non è facile, ma una nuova difficoltà, prima sconosciuta, si è aggiunta a quelle già note.
Si tratta della sorpresa nel rileggere cose scritte anni fa (a dire la verità nemmeno troppi). E non si tratta solo delle parole che ho usato, che capisco possano suonare diverse o troppo legate a fatti specifici di quel periodo che ora non ricordo immediatamente, ma che devo ricostruire. No, la vera sorpresa sta nei commenti ricevuti.

Altre volte mi sono ritrovato a dire che, per chi come me vive senza guardare mai troppo il calendario (né avanti, né indietro, né il giorno stesso), la giusta impronta della vita la fanno le emozioni e l'amore, che piantano quei momenti nel profondo della memoria con picchetti di pianto o risate, o abbracci, o baci, o altro.

Eppure oggi mi capita di ritrovare un post che parla di amore e mi trovo sorpreso, immobile, spiazzato. Leggo e rileggo un paio di volte, ma rintraccio solo il senso generale. Il commento in fondo, poi, mi getta definitivamente nell'oscurità. Non mi bastano due minuti di indagine per ricostruire quello che credevo dovessi avvertire, capire e sentire a prima vista. Chi è la Lei del commento? Chi ero io nel novembre 2008? Era davvero Lei, o forse era un'altra?

E il fatto che in questo post così estraneo si parli del tempo, be' questa è una delle più apprezzabili ironie della sorte.

Ti lascio con il post, letture sventurato.

-------novembre 2008
Tempo al tempo, ora sì. 

È passato un anno, qualcosa di più, e oggi mi sento significativamente diverso rispetto ad a quei giorni.
Ho raggiunto nuove vette, ho visto passare altra acqua sotto i ponti, e mi sono scoperto cambiato.
Non molto, ma almeno un po'. Quel po' che pure è tanto, lo sento. E tra i tanti nuovi amori, per le molte nuove cose, non posso e non voglio negare che, sempre da poco più di un anno a questa parte, ci sei tu: impossibile che in un certo qual modo tu non ne sia responsabile.
E per questo ti ringrazio, dal profondo del mio cuore.


Tempo fa dissi che avevo già avuto la storia più importante, che sapevo tale perché mi aveva cambiato moltissimo. Non sbagliavo.
Sbaglierei oggi, però, se non dicessi che la nostra ha saputo cambiarmi allo stesso modo.


E non è per i problemi, che c'erano ieri, ci sono oggi, e spero ci siano anche domani, ma per il mio modo di risolverli, che è cambiato. E perché la maggior parte sono problemi da adulto, e di questo non posso che essere felice. Sono problemi da uomo, ma questo non vuol certo dire che io lo sia. Resto una via di mezzo, coi miei momenti saggi e quelli più infantili; certo più consapevoli.
Diciamo uomo e ragazzo, un po' più uomo, un po' meno ragazzo. 

commento:
[Anonimo] e io ti amo mio piccolo, grande uomo ragazzo.

lunedì 5 marzo 2012

Io qui non potevo venirci che a piedi

(30.09.2010)

Il portone si chiude alle mie spalle e m'incammino per il viottolo di ghiaia, che mi tiene a galla tra i due mari di prato verde che si stagliano ai lati. Raggiungo il cancello, che è ancora aperto. Due operai controllano la chiusura automatica. Li saluto e prendo a destra.
Sotto i miei piedi l'asfalto della Flaminia. Il cielo è blu e il sole dell'una finalmente non fa soffocare. Basta sbottonare la giacca, e si va che è una meraviglia. La strada è lunga, ma Dio o chi per lui mi ha concesso un giorno senza fretta, e il mio grazie è davvero sentito. Ho tutto il tempo di pensare. Di ripensare. Di assaporare.

Non è stato facile arrivare fin là. Era abbastanza lontano e abbastanza scomodo, coi mezzi. E poi era la prima volta che giravo quella zona. Una piccola avventura geografica nella grande avventura professionale. La ricerca del lavoro che porta a conoscere nuovi posti, nuove persone. Come il signore a cui ho chiesto informazioni e che dal nulla mi ha offerto un passaggio, visto che secondo lui la strada a piedi era lunga parecchio.
Ogni volta conquisto un pezzo di mondo in più.
Quello di oggi era periferico, in parte rurale. Segni particolari un cimitero, un golf club, e due o tre chilometri di strada statale consolare senza marciapiede. Erba verde, scorci di campagna autentica, tante lucertole imperattive e perfino qualche grillo. Uno spettacolo.

Ad un certo punto mi trovo davanti un cartello BUS - FERMATA SU RICHIESTA. Mi giro, da lì si vede almeno un kilometro di strada. Però c'è solo un torrente di macchine. Forse un paio di camion. Niente pullman. All'autostop non ci penso che per un secondo. Ho già avuto la mia dose di culo, e poi davvero non ho fretta. Me lo voglio godere, questo sole. Mi sistemo la tracolla, penso che potrei addirittura sfilarmi la giacca, arrotolarmi le maniche e abbronzarmi un po'. L'unico rimpianto gli occhiali da sole. Anzi no, la macchina fotografica. Ma la perfezione non esiste, per fortuna.

Persone che ti sorridono, persone che ti soccorrono. Persone che ti stringono la mano o che si propongono di darti un passaggio almeno a ritorno. Non appena esci di casa tutti i nemici spariscono, si dileguano. E poi metti che arrivi in un posto che ha qualcosa di paradisiaco. Una specie di casale rinascimentale, lucente e immerso nel verde. La strada è di ghiaia così bianca che sembra lavata a mano, sassolino per sassolino.
Una cosa incredibile. Una cosa che mi viene il pensiero sia finta.
Una ragazza coi capelli mossi mi dà il benvenuto. Rimane sorpresa, alla storia del passaggio. Io sono sorpreso quanto lei.
Dentro mi accomodo su una sedia rossa. Chi arriva in anticipo condanna se stesso all'attesa. È normale. Nel mentre, però, si rovescia dell'acqua da un contenitore. Finisce sul pavimento, tutta intorno alla stampante. La ragazza corre, prende il mocio e lo passa veloce avanti e indietro sul pavimento. Si affanna un po'.
Eccola là. Ecco la conferma che quel posto è umano, vulnerabile, reale.

Un cartello tondo cerchiato di rosso mi avvisa che non si devono oltrepassare i 50 km orari. Non c'è alcun pericolo. Io qui non potevo venirci che a piedi.
Io vado alla velocità di chi se la gode, anche se non dispongo di molto e cerco sempre qualcosa di più.
Ma lungo la strada, tra una lucertola e un fioraio ambulante, sotto un cielo stupendo, per un bel pezzo non cerco più niente.

sabato 10 dicembre 2011

Non si fa mai tutto da soli

Di "Stranizza D'Amuri" mi sono innamorato grazie a Laura, che me l'ha fatta sentire la prima volta. 
È stata Azzura, invece, a farmi fare la mia prima homepage, con la quale sono cresciuto. È diventata un blog, grazie al quale per anni ho sfogato le mie frustrazioni, incontrato persone, accompagnato il mio interesse per la scrittura. E adesso sono finito qui, e ci sono finito da solo.

Se ho cominciato a scrivere è per merito mio ma anche e soprattutto di Ilaria, compagna di banco di cui mi innamorai follemente al liceo, e se oggi continuo a farlo è sempre per merito mio, ma anche di Eleonora, Cristina, Laura, Marco, Roberto, Clelia, Sara, e tante altre persone.

La passione per i videogiochi la devo tutta al Mio Omonimo.

L'amore per la montagna lo devo invece a uno Zio Sacerdote e a un Fratello Apprendista Metereologo.

Il parziale interesse politico lo devo a Cristina, all'Alabastrino, ad Annerita, a Bella de' Casa.

Se a volte me la cavo con le ragazze (ho detto "se"), è merito solo di Andrea

Se amo stare da solo è invece soprattutto grazie ai Miei Genitori

E se domani suonerò la chitarra? Sarà grazie a Federico, ad Azzurra, a Clelia e a Daniela.

Le foto? Se saprò farne di belle sarà grazie a uno Zio "Stralunato" che mi ha regalato una fotocamera che dopo anni però ho rivenduto.

E se domani dovessi trasferirmi in Australia? Sarà grazie a Marco e a Rebecca.

E se la mia vita è sempre più piena di quanto non mi sembri durante certe serate, lo devo alle tante persone che la rendono ricca con quello che hanno. E dire questo è comunque dir poco. Come anche il mio grazie. Per tutto quello (anche qualcosa di meno buono e bello) che mi è stato e mi sarà dato. 

PS: Bregovic però l'ho scoperto da solo.

(08.01.2010)

mercoledì 30 novembre 2011

Momenti

Ci sono momenti in cui sei stanco, sviscerato da ogni reazione. E allora ti resta il pensiero, che prende e vaga senza dirti quando torna o dove s'incammina.
Sono i momenti in cui sei solo, anche in mezzo alla gente.

Ci sono momenti in cui cambi il cellulare, perché quello che usavi fino al giorno prima diventa di colpo inaffidabile. Capita allora che ti fermi a riflettere, che non fai cose avventate, perché quando non sei sicuro di voler andare avanti c'è sempre il passato appena passato, l'ultimop passo fatto. Non vai da mediaworld, non ne compri uno nuovo. Trovi in una busta il buon vecchio nokia 5210, quello prestato a Zu. Lo metti in carica, e ringrazi pure il signore di non avertelo fatto buttare.

Certezze della vita.
C'è chi se ne disfa per rincorrerne sempre di nuove e chi piange quelle che per forza si è lasciato alle spalle.

Ma è così: quando si punta ad una vetta non si può esitare a lungo. Arriva sempre il momento in cui sai che devi tirar dritto, affrettare il passo. Sudare, faticare. Cadere, magari. Ed è bellissimo, anche se non cancella alcun dolore, ritrovarsi capaci di raggiungere i propri obiettivi o anche solo di sapere che si è sulla strada giusta.

E se qualcuno prova ad arrivare prima di noi, non c'è alcun problema. Si pianifica il sorpasso. Lo si supera. Si sa.





21.08.2009

mercoledì 23 novembre 2011

Sempreverde

Trovare un doppio spazio alle 2 di notte su un cartello di informazione turistica vuol dire che è arrivato il momento delle deformazioni professionali, ma soprattutto che la resistenza alla combinazione Ceres-Tennents è aumentata. C'è da porre rimedio, subito.

"Il vagabondo delle stelle" mi mette di fronte la storia di un uomo che in carcere ha appreso l'arte di allontanare il suo spirito dai dolori e dalla prigionia del corpo.
Imparare questa tecnica entra di prepotenza nella lista delle cose da fare.

Il mio io "noto a tutti" comincia lentamente a diventare più simile a quello vero, in virtù di candide rivelazioni che mi pesa sempre meno produrre, e mi accorgo di essere ogni giorno un filo più simile a chi vorrei essere. In fondo s'intravede un chiarore – penso mentre guardo allo specchio la prodigiosa crescita dei capelli tagliati neppure tre giorni fa. Ma poi mi viene in mente la storia di Orfeo e capisco che c'è ancora molto da fare, da stringere i denti e soprattutto da non voltarsi prima del tempo, che altrimenti non rivedrò mai più la mia ombra.

E poi arriva quella sera che finisci a bere birra sotto la luna tiranna, che ha spazzato le stelle via dal cielo. Ti ritrovi davanti a un falò giallo e arancione che da solo si oppone al nero della campagna, un falò improvvisato a cui hai dato vita con una manciata di tuoi biglietti da visita. Come se quella sera la tua identità fosse un organo donato alle fiamme, un organo di cui non sai se puoi fare a meno per più di una sera.
Gli arrosticini sono sulla brace da un pezzo, ma è in fondo è così difficile vedere se sono cotti bene da ogni lato che a un certo punto li prendi e li mangi tutti così come sono, perché c'è un tipo di fame che non permette di attendere o di sottilizzare.

Lei, che passa un paio di notti l'anno, come fosse una stella cadente.
Spingerla contro quel muro dove è appoggiata e da cui mi sorride. Spingere il mio corpo contro il suo come a soffocarla, come a soffocare anch'io.
Non per amore, ma per fame.
E per desiderio. Per scoprire se è vera e quanto è profonda la voglia di lei, che mi sorride ancora in quel modo, ora che gli anni sono aumentati indebolendo il significato della loro differenza.
Spingerla contro quel muro e diventare un respiro solo, cadere a terra e respirare ancora insieme, come non ci fossero desiderio e bisogno maggiori, come fossimo l'uno l'ultima aria per l'altro. Respirarsi, e scoprire fino dove saprebbe spingersi, libera dagli sguardi delle finestre di un paese dormiente, durante una notte in cui la luna è passata e tornano a brillare le stelle ed il buio.



17.08.2011

giovedì 17 novembre 2011

"Addievederci". Anzi, "Ciao"

Il primo "addievederci" (una forma mista di addio e arrivederci che sembra governare i saluti più o meno definitivi nell'ambiente professionale) lo provai che ero arrivato da poco. Nemmeno una settimana che ero in agenzia e il ragazzo che mi aveva accolto, F., mi stava stringendo la mano per salutarmi. Mi diede il suo biglietto da visita, che poi in realtà era un biglietto da visita dell'agenzia sul quale aveva scritto i suoi contatti con una penna nera, e ci scambiammo un "in bocca al lupo". Dopo pochi istanti sparì dietro al portone.

In seguito partì anche S., e dopo fu la volta di altre persone. Io continuavo a stringere mani, a spargere abbracci e ad augurare buona fortuna a tutti quelli che se andavano, sempre con meno sorpresa. Mi stavo abituando agli "addievederci".

Il lavoro è duro, il lavoro è tosto. Roba da uomini veri, con le palle quadrate.
Il segreto? Chiudere a doppia mandata, serrare bene ogni spiraglio d'affetto, impedire che piccoli raggi di luce filtrino e impressionino quella preziosa pellicola che abbiamo dentro. Perché di gente passare ne vedi molta, forse troppa, e se non facessi così non potresti più vivere.

Ieri è stata la volta sua, quella del buon E.
Se ne è andato felice, con lo stesso sorriso che aveva il primo giorno che lo vidi e che per tutto il tempo in cui ha lavorato al mio fianco non ha mai tolto. Sarà che qualcuno ancora riesce a sorridere con la faccia sua, senza doversi mettere una maschera per l'occasione. Saluti, abbracci, strette di mano e "addievederci" a tutti. Davanti una festa, una caccia al tesoro, e poi Salento.
E ci siamo salutati col sorriso, guardandoci negli occhi, con quell'inchino nato per gioco e diventato così inaspettatamente il simbolo, per un istante, del nostro addievederci.
Poi sono tornato al mio posto, ho rimesso gli occhi sul monitor e le dita sulla tastiera. Ho spinto lettere, numeri e simboli, sperando di riuscire, con essi, a spingere lontano anche un po' di quella malinconia che sentivo strisciarmi alle spalle. Ho fatto come fanno tutti, sicuro che non appena ne avessi avuto il tempo, avrei fatto a modo mio.

Sono qui a farlo. Adesso.
E per qualcuno non dovrei.
Me ne fotto.
Guardo alla mia sinistra e ci trovo il nulla, poi penso che da lunedì qualcuno siederà al tuo posto, e che per quanto sarà bravo non avrà il tuo sorriso. Non sarà il " King dell'animazione", il ragazzo che mi salutava con "ciao Capitano".
Ciao...
In fondo, sto pensando, il nostro non è stato un comune "addievederci". Il nostro è stato un più onesto "ciao", in attesa che un mese o poco più ci rimetta di fronte a ridere e a scherzare.

Tra una settimana toccherà anche a me, amico mio.
Immagino di darti la buona notizia mentre tu starai in spiaggia a goderti il sole, la brezza e il rumore delle onde. Immagino di ridere qualche minuto assieme per l'ebbrezza della libertà.
Intanto brindo alla tua, come si deve. Butto giù questo cocktail neanche troppo fresco di parole improvvisate, e shakerate con la tecnica e la destrezza di un contadino.
Butto giù e mi disseto, che qui intorno le mura si stringono e fa sempre più caldo.
Fuori c'è la brezza, e praterie sconfinate dove costruire tutto quello che ci piace.

Salute.