Un giorno di qualche tempo fa, stavo consegnando un documento all'amministratore della società per cui ho deciso di smettere di lavorare. Si trattava - per l'appunto - di un accordo per "risoluzione consensuale del rapporto di lavoro".
La verità è che, adesso, ci pagano in media un mese ogni due. La spiegazione che i colleghi ed io abbiamo avuto è stata che c'è la crisi e che i clienti non pagano, ma noi abbiamo solo grandi clienti, quindi non c'è da preoccuparsi perché pagano eccome, solo che pagano solo quando vogliono loro, perché appunto sono grandi e fanno un po' come cazzo gli pare.
Questa spiegazione non mi ha convinto per niente. Inoltre avevo in programma da tempo di tentare la via del freelance, per poi fare un salto in Australia, e questa situazione del cazzo, insieme a questa spiegazione del cazzo, mi hanno solo convinto ad anticipare i tempi.
Ma non è di questo che ti voglio parlare.
Voglio parlarti soprattutto del mio presente, ad esempio di questo senso di nausea che ormai da due mesi mi fa compagnia due giorni sì e uno no. Sarà che non ci pagano? Sarà che per la prima volta nella mia vita, dopo aver lasciato amici, ragazze e la casa dei miei genitori, sto lasciando anche il lavoro? Ci starebbe, eh, ci starebbe tutta. Perché in fondo io per questo lavoro ho lottato. In queste cazzo di giornate di 8 ore a scrivere testi tutti uguali e a inserirli su siti tutti uguali, ci ho creduto davvero. Due anni fa, quando ho cominciato, mi sono convinto davvero che questo potesse essere il mio futuro. Oggi so che qualunque sarà il mio futuro, sarà lontano da un posto fisso, a lavorare 8 ore al giorno su un pc fisso, seduto su una sedia di pelle che almeno quella però ha le rotelle.
Di questo posso dirmi abbastanza sicuro.
Quando ho consegnato questo documento di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, però, è successa una cosa strana. Il capo è venuto a cercarmi perché a lui, quel consenso comune tra le parti cui accennavo nel documento preparato, non tornava proprio. "Io non ti voglio licenziare, io non ti licenzierei mai. Sei tu che vuoi andare, se no sarei felice se restassi".
Forse avrebbe potuto risvegliare in me del sentimento, riaccendere quell'amore lontano del piccolo stagista che fui tempo fa. D'altronde quelle sono le parole che ogni dipendente vorrebbe sentirsi dire. Eppure non era così, non poteva più essere così, perché io non ero già più un dipendente.
Quello che è successo, comunque, mi ha spiazzato. Quelle parole davano alla mia iniziativa un significato netto ed innegabile, che forse fino ad allora non avevo avuto il coraggio di leggere guardandolo dritto negli occhi.
Ero io a volermene andare.
Non erano i cattivi che volevano cacciarmi, e non contava nemmeno la situazione di merda in cui l'agenzia si trovava: ero io che stavo dicendo di volere andare via.
Mi trovavo di fronte a una decisione già presa, solo che dovevo davvero firmarla di fronte agli altri e - prima ancora - a me stesso. Se il mio fosse stato un capriccio vestito da bisogno, quel momento l'avrebbe smascherato, altrimenti avrei dovuto firmare per la mia anima.
Parlare, per quanto difficile, non era stato impossibile, ma assumermi la responsabilità delle mie parole, di colpo risuonate più chiare di quanto pensassi, non era poi così scontato.
Oggi è il quarto giorno da libero professionista. Ho inziato una nuova vita che non so dove mi porterà. Si tratta della cosa più bella che mi ha regalato la mia scelta.
sabato 6 luglio 2013
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
0 commenti:
Posta un commento