Sono in una sala d'attesa piena di gente che non conosco. Davanti a me un uomo parla alla donna al di là del vetro. Tra poco è il mio turno. Nel frattempo penso alla morte, alla vita, ai suoi cambiamenti improvvisi e a quei tanti che, il più delle volte, sembrano improvvisi solo a noi. Penso che oggi è stata la seconda volta che ho quasi pianto a lavoro.
Stare a casa era già difficilissimo da tempo, ma la febbre aveva l'incredibile dono di rendere il tutto ancora più complicato. Dovevo fare qualcosa: sopravvivere in quello spazio era un compito così arduo da richiedere una condizione psico-fisica pressoché impeccabile, mentre io scappavo al cesso ogni 5 minuti a cacarmi l'anima, correndo verso l'obiettivo fisso della tazza del cesso. La febbre non avevo ancora trovato la forza di misurarla, ma me la sentivo nelle ossa.
Un classico.
Dalla discussione al litigio, così il dibattito urlato coi miei si stava facendo una questione di vita o di morte, ed io, per fortuna, da qualche tempo già studiavo e mi allenavo per scegliere la vita.
Mi chiusi in camera, sbattendo la porta. Tre minuti dopo la riaprii per andare a lavoro, in jeans e maglietta. Era chiaro che volessi raggiungere la porta di casa ed uscire, tirando dritto senza ulteriori interruzioni, ma prima fui costretto a rivedere i miei piani per un'ulteriore e assolutamente necessaria tappa sul cesso.
Sono ancora nella sala d'attesa, piena di gente. Il tizio davanti a me sta ascoltando quello che dice la donna. Lei è un'infermiera, lui e gli altri non li conosco. Potrei pensarci su, immaginare chi siano e che vita conducano quelle persone stressate, accalcate, rassegnate, abbattute, spiantate. Potrei farlo, mi dico così per gioco. Potrei lavorare con un po' di fantasia, tirare a indovinare. Potrei, ma in fondo trovo più affascinante pensare ad altro. Oggi per poco non ho pianto a lavoro.
Arrivai con circa venti minuti di ritardo: felice, al sicuro e finalmente con chi volevo. Avevo superato il viaggio senza la minima turbolenza intestinale, e la rabbia nel sangue si sfogava facendo a brandelli la febbre.
Il mio ingresso sorprese tutti. Una collega sgranò gli occhi: Chiara, quella con cui avevo stretto di più, quella che mi era stata più umanamente vicina durante i primi mesi di inserimento in azienda. Sgranò gli occhi e disse "e tu che cazzo ci fai qui?".
Non era la domanda che mi aspettavo. Più o meno l'idea di sorpresa era quella, ma il tono e il lessico mi parevano eccessivamente duri. Le sue parole suonarono come di attacco, come difesa contro la mia presenza e contro di me. Suonarono come "neanche questo è un posto per te". La fissai impalato, e gli occhi presero a pizzicarmi.
Forse c'era un modo per stemperare quella sensazione di vita precaria, pensai per un istante. L'istante dopo, però, Chiara disse che se ero malato dovevo restarmene a casa.
Non ricordo cosa dissi, comunque niente di eccezionale. Una frase scontata e uscii dalla stanza. Un secondo dopo ero in bagno, ma non era diarrea. Come non era la febbre, a pizzicarmi gli occhi, bensì la polvere di un fiume di lacrime, pronto a gettarsi su tutto il mio viso.
Sentii sugli occhi, sulle guance e sulle labbra la voglia di piangere. E per poco, davanti ai miei occhi riflessi, non piansi. Quella fu la prima volta che per poco non piansi al lavoro.
Il tizio va via. Ora sta a me. Prendo fiato come fosse routine, ma un leggero raschio in gola annienta il suono del mio cognome mentre lo dico. Non la sento bene, quella parola. Sembra diversa, quasi svanita, come se del mio fiato non fosse rimasto niente, nemmeno un'appannatura sul vetro. L'infermiera però lo capisce lo stesso.
Cognomi uguali per due persone agli antipodi della vita. L'una che al richiamo del sangue si sforza di correre incontro all'altra, già più immobile di quanto possa per scelta.
E mentre la donna guarda il pc, scorrendo altri infausti cognomi, ripenso alla voce rotta di mio padre al telefono, alla corsa per prendere il tram, a tutta quella gente sconosciuta dietro di me, nella sala d'attesa. Oggi è stata la seconda volta che ho quasi pianto al lavoro.
martedì 8 gennaio 2013
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