sabato 16 marzo 2013

In ogni caso



Ci sono persone che quel giorno erano con me, e persone che invece non c'erano ma alle quali ho raccontato a voce com'è andata. Oggi, però, ho intenzione di raccontare di più, di mostrare quello che gli allora presenti non potevano vedere. Per spiegare, forse. O meglio ancora per scoprire anch'io come sono andate veramente le cose quel giorno in montagna.

Quello che ho capito è che al mondo ci sono cose impossibili e cose che SEMBRANO impossibili. Al di là di quanto io stesso ero abituato a pensare, quasi tutte sono del secondo tipo.
È una questione di limiti, di confini estremi delle nostre possibilità: ci convinciamo di non poter superare un linea fin quando non ci ritroviamo col piede lì sopra, e sentiamo di poter fare un altro mezzo passo, fosse anche l'ultimo. A quel punto ci portano solitamente le situazioni estreme, che non piacciono a nessuno e che sono quindi rare, inattese, fuggite come vere e proprie sventure.

Io, invece, quella volta in montagna ci sono andato a nozze, con le sventure. Si è trattato in sostanza di un tentato suicidio, della simulazione di una condizione estrema. Estrema per la mia preparazione fisica e per l'attrezzatura che avevo con me. Estrema dal punto di vista fisico, ma anche psicologico.

Sono partito per una camminata, senza sapere lunghezza, dislivello, nome del sentiero. Senza sapere nemmeno se quel posto, in fondo, esistesse davvero. Poi, poco prima di partire, ho rifiutato di affittare le ciaspole. "Devo espiare non so quale colpa", ho detto.

Alla fine è andata bene, nel senso che ce l'ho fatta, ma durante l'ascesa non tanto il dubbio, quanto persino la convinzione di non farcela si è impossessata di me. È stata la forza di volontà, o meglio ancora la speranza, a portarmi all'arrivo. Nel bel mezzo di un periodo in cui banchetto quotidianamente con l'incertezza, inclusi piccoli spuntini pomeridiani di paura, quella camminata è diventata un sorprendente simbolo di salvezza, attraverso il sacrificio. Un sacrificio vero, pesante, che ho scelto di incontrare e ingigantire, perché per capire se sei Davide - passatemi la metafora solo per quel che riguarda le dimensioni e la forza dei due contendenti - devi sfidare per forza Golia.

Il viaggio a piedi

Ho in mente la fatica e il dolore, il logorio delle energie lungo la piana piena di dune e sommersa dalla neve fresca, pronta a farmi sprofondare un passo sì e tre no fino al ginocchio, sotto i chili inclementi dello zaino.

Cercare di capire come andare avanti senza andare a fondo, provare a trasformarsi in Dio, per camminare sulla più vicina parente dell'acqua, o almeno in un Super Sayan di terzo livello, per volare in un battibaleno verso la cima lontana del monte. Tutto impossibile, in quel deserto di sabbie mobili bianche: uniche oasi di speranza, le rare teste di cespugli di ginepro affioranti.

Ad ogni nuovo passo, tirare fuori il piede dalla neve è più faticoso, le ginocchia e le cosce si fanno incandescenti, mentre mi sforzo di non perdere di vista il resto del gruppo, che mi ha distanziato di molto. Ogni tanto i ragazzi si fermano, si riposano e mi aspettano. Quando arrivo dopo diversi minuti, mi chiedono "come va?", mi dicono "grande", "ti stimo", "ma come fai?". Io non lo so, ma sorrido, col solo effetto di posticipare ancora di più la ripresa del fiato. Poi riparto, spaventato di non sapere quanto sia ancora lungo il cammino, spaventato dall'acqua scongelata che sento da un paio d'ore sul fondo degli scarponi, che pian piano taglia via dalle dita ogni sensibilità.

Alle prime dolci salite, nel bosco fitto di alberi spogli, si fa strada nella mia mente l'idea di non farcela. I piedi sono ghiacciati, e sopra di essi le gambe hanno già speso tutto il loro sudore. La fatica inizia a introdurmi a pensieri più forti, di vita o di morte.

Penso a nonno, andato via un paio di giorni dopo il cambio del calendario. Lui fece la guerra, e durante la campagna greca un medico lo salvò dalla cancrena. Chissà se il suo spirito potrà aiutarmi, mentre la speranza di arrivare alla fine muore a ogni passo e rinasce a ogni albero.

Di fronte alle due impervie salite finali mi sento impotente, inutile. Il sole mi sta abbandonando, spazzato via da un vento forte e gelido che sono sicuro spazzerà via anche me, come una foglia, rimandandomi nel bosco dal quale sono venuto.
Le gambe almeno vanno da sole. La mente le spinge avanti senza ragionamenti, senza pensieri, solo con ordini. "Andate!", dice loro. L'istinto di sopravvivenza ha preso il comando, spodestando la coscienza e rinchiudendola in uno sgabuzzino a doppia mandata. Lì dentro, tra il buio e la polvere, versa lacrime  e vorrebbe solo che il corpo si abbandonasse al vento e alla neve. Spegnere le luci e cedere al buio, sdraiarsi nel bianco e sentire spegnersi tutto, pian piano, lampadina dopo lampadina.
Andare a dormire, anche se fosse per sempre, perché il futuro non ha più alcun fascino, quando il presente esprime l'ultimo desiderio.

Eppure il gruppo è lì, poco più in alto di me e non troppo lontano. Ancora più incredibile, l'ultimo raggio del sole illumina davanti ai miei occhi il profilo del rifugio. È lontano ma esiste. E io posso farcela, a costo di salire a quattro zampe.


Quasi 5 metri al minuto, è questo il mio sprint. Mentre perdo del tutto il contatto con le dita, mentre sento le piante dei piedi urlano come se camminassi su un prato di pugnali, raggiungo due ragazzi. Loro sono stanchissimi e contano i passi a gruppi di venti o cinquanta. Lo faccio anche io, sperando sia il loro segreto. Quando una nube bianca ci inghiotte, continuiamo a contare. Ognuno per sé, sottovoce. Proseguiamo compatti, i primi sono già arrivati e tra poco saremo con loro.

Alla fine ci siamo. Ci sono. E mentre al caldo del sacco a pelo i miei piedi asciugati diventano bianchi e poi neri, mentre sotto coperte e magliette di lana sono preda di brividi che non riesco a fermare, qualcuno mi abbraccia. E io non ho idea di come starò domani, ma so che ci arriverò in ogni caso.

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